
immagine tratta dal film documentario “Princesa” di Stefania Muresu, prodotto da Caucaso e Roda Film (2021)
Accenni di medicina popolare sarda
Parlare di medicina popolare sarda presuppone sapersi orientare all’interno di un universo magico, rituale, empirico, sciamanico e sociale (Cossu, 1996), determinato a sua volta da diversi fattori culturali, sociali, ambientali e linguistici presenti sull’isola. Tutti questi elementi collaborano, si mischiano, si integrano insieme formando ciò che potremmo definire medicina popolare. Consapevole, dunque, dell’eterogeneità insita sia nella definizione stessa sia nel produrre categorie sul ruolo della donna nei contesti della cura, non voglio qui di seguito né proporre delle considerazioni statiche né avere la pretesa di imporre verità assolute. La mia idea, piuttosto, è di proseguire la ricerca sul dibattito del ruolo della donna nella difesa della salute partendo dal determinare cos’è la medicina popolare e come di configura all’interno del territorio sardo, quest’ultimo inteso come terreno geograficamente delimitato da tutta una serie di pratiche medico-popolari specifiche. La medicina popolare in Sardegna è composta da più elementi che collaborano e si influenzano vicendevolmente formando una specifica struttura cognitiva di riferimento. In questo macrocosmo popolare il corpo non è separato come fosse una macchina: anzi, è in continuo contatto con l’universo che lo circonda e la natura che lo ha generato (LeBreton, 2021). La separazione corpo-anima, e successivamente corpo-mente, compie quell’azione riduzionista che è la categorizzazione del corpo a mero organismo, pura materia. La medicina popolare, invece, sollecita l’adozione di una concezione basata sulla persona in quanto tale, sulla sua totalità, senza delimitare la cura ai singoli disturbi come spesso fa la biomedicina. Quando si parla di medicina popolare bisogna saper scindere da quella che invece viene definita come medicina tradizionale46. Attualmente popolare e tradizionale sono le due espressioni più utilizzate dalla ricerca accademica per indicare le alternative alla medicina ufficiale (Riccò, 2019). Ancora una volta, dunque, tengo a sottolineare che in questo elaborato ho preferito utilizzare il termine popolare: ciò non significa che all’interno della medicina sarda non vi siano sfaccettature affini alla medicina tradizionale e viceversa. Se la prima proietta le sue concezioni in un immaginario legato perlopiù ad un mondo subalterno, contadino, la seconda fa riferimento ad una questione culturale, locale. La medicina tradizionale sarda, analogamente a molti sistemi di cura orientali (cinese, ayurvedico), concepisce l’essere umano nella sua interezza, tenendo ben in considerazione la componente energetica e spirituale.

Rifacendosi alla scuola ippocratico-galenica, l’essere umano è composto da qualità energetiche che derivano dalla scomposizione del mondo nei quattro elementi fondamentali, ovvero fuoco, aria, acqua, terra, che a loro volta sono accompagnati da quattro qualità: caldo, freddo, secco ed umido (Tierra, 1995). Questa scomposizione, insieme all’utilizzo e alla sperimentazione delle piante medicinali, è uno dei capisaldi della medicina tradizionale sarda. Durante il mio soggiorno sull’isola ho notato un certo interesse nei confronti del mio studio: la maggior parte delle persone, infatti, era attratta e voleva approfondire il discorso sulla medicina popolare. Mi sono interrogata dunque sul motivo di questa fascinazione: in taluni casi sembrava rievocare un passato storico ormai andato perso o talvolta mai scoperto, in altri invece passava attraverso un sentimento molto forte di curiosità e di volontà di riscoperta delle proprie radici. C’è da mettere in evidenza che caratteri della cultura sarda sono stati influenzati da elementi di origine sciamanica che all’interno dell’universo della cura si sono esplicati attraverso il compito di specifici guaritori che operano grazie ad un’azione spirituale; infatti la malattia in questo campo viene intesa come natura divina, male soprannaturale colpito nella vita terrestre. In Sardegna l’operatrice sciamanica viene chiamata spiridàda e apportava benefici grazie alle sue doti di mediatrice con il mondo divino. Quando la cattiva sorte colpiva una famiglia o un individuo attraverso continue sfortune e catastrofi, l’unica soluzione era mettere in campo forze positive, scacciando via il male. Ciò che più lega l’operato di questi guaritori è la questione di curare nella collettività, infatti un altro elemento basilare presente nella medicina popolare sarda è quello sociale.
Che cos’è lo sciamanesimo? Chi è lo sciamano? Definire questo termine risulta essere una questione piuttosto complessa, è noto che l’origine del termine è stata utilizzata per descrivere un tipo caratteristico di operatori rituali da parte di un’etnia indigena, i Tungusi.

Nonostante la sempre crescente incidenza della medicina scientifica sulla questione della cura, si può affermare che in Sardegna, seppur in maniera parziale, sopravvive un modus operandi ancora appartenente a quell’universo popolare. Pratiche empiriche e terapie magiche hanno proseguito in maniera celata il loro cammino trasformandosi nella contemporaneità ed espandendosi ad altri ceti sociali.
Féminas tra terapie magico-religiose e pratiche empiriche
In questo paragrafo vorrei concentrare l’attenzione sulle guaritrici presenti nelle campagne rurale sarde specificando i loro metodi di cura. Si pensi banalmente alle prime fasi del ciclo vitale di un neonato, alla donna partoriente, alla madre che accudisce. La difesa della salute non passa solo ed esclusivamente dalla malattia, essa ricopre più e più campi d’azione. L’iniziazione e il proseguimento della vita stessa un tempo erano affidate alla gestione esclusiva del genere femminile. La donna viene così raffigurata come «una sorta di guardiana della soglia che accoglie e accompagna la partoriente, aiuta il bambino a nascere, ma vegli anche sui morenti e si occupa delle ultime cure, in particolare della toilette funeraria» (LeBreton, 2021, p.125). Perché concentrarsi proprio sul ruolo rivestito dalla donna?
Se vogliamo entrare nelle maglie di questo microcosmo al femminile possiamo determinare alcuni profili: l’operatrice tradizionale prendeva il nome di meìga: la medica. Essere meìga non era semplice, bisognava possedere caratteristiche specifiche come «una competenza indiscussa nella cura di qualche malattia particolare» (Cossu, 1996, p. 45) o comunque poter riconoscere le piante medicinali ed essere capaci di trasformarle. Se ci spostiamo sul versante tra il mitologico e il reale si trova un’altra figura, spesso citata in numerose documentazioni: quella della fata. «L’interpretazione più accreditata è che il loro nome – così come l’antico toscano giana, la janara napoletana, la xana austriaca, la jà portoghese, la jana dell’antico provenzale, il francese antico gene e il rumeno zina – sia il declassamento del latino Diana, che, con l’avvento della cultura cattolica, da dea diventa una creatura oscura, se non proprio demoniaca» (Deiana, 2022, p.10). A livello più spirituale, come accennato precedentemente, esisteva la figura della spiridàda, in grado di stabilire una connessione tra divino e terreno. Le spiritate, inoltre, si interessavano ai problemi riguardanti soprattutto la sfera emozionale e affettiva. A queste categorie sopra descritte si aggiungono innumerevoli varianti dettate anche dalle diverse capacità, dal contesto e dal luogo di nascita: fizza ‘e luna, majarza, femina pratica, meigadora (Cossu, 2005). È importante specificare che esse agiscono non solo come semplici guaritrici bensì «sono anche mediatrici fra ambiti eterogenei della realtà visibile e invisibile e combinano risorse diversificate della società e della natura.
Sa mejighina ‘e s’oju, una medicina al femminile?
La medicina dell’occhio è una pratica antica ancora oggi presente nel tessuto sociale e culturale di molte zone nel bacino del Mediterraneo. In Sardegna viene chiamata sa mejighina ‘e s’oju ma si possono distinguere diverse varianti, come ad esempio oju malu, ocru malu, ovvero occhio cattivo, che non sono solo lessicali perché anche l’atto esecutivo stesso cambia da zona a zona, da persona a persona. Seppur con sfumature e invocazioni differenti, la medicina dell’occhio si è sviluppata in tempi remoti e sussiste fino ad oggi. Mia nonna, ad esempio, di origini campane, pratica tutt’oggi la
medicina dell’occhio attraverso l’acqua, l’olio e l’invocazione della formula segreta.

Allo stesso modo di quello sardo, il malocchio campano si può ascrivere come parte integrante di quell’universo magico-religioso appartenente ad una specifica tradizione popolar-rurale. Il malocchio «è annoverato tra i malesseri psicosomatici che la medicina popolare può guarire. Tradizionalmente esso è considerato come lo stato fisico-mentale che precede il possibile scatenarsi di una malattia» (Guerzoni, 2020, p.23). In Sardegna la medicina dell’occhio porta con sé tutta una serie di elementi frutto di un sincretismo storico e religioso, «la cristianizzazione bizantina e l’acculturazione che avvenne durante il periodo di dominazione spagnola» (Guerzoni, 2020, p. 26), che sono i due periodi cardine associati all’evolversi di questa pratica. All’interno della medicina dell’occhio, infatti, attraverso un tipo di simbologia, si possono scorgere elementi legati alla presenza della religione cattolica, come la croce, i brebus, le invocazioni. Si noti che il richiamo alla fede è presente con altre sfaccettature, grazie ai simboli sacri che si ritrovano anche nelle celebrazioni ecclesiastiche, come ad esempio durante la messa (Guerzoni, 2020). Il malocchio era già diffuso ai tempi degli Egizi e dei Greci ma anche di epoche ancora più lontane in cui si credeva che malesseri e disagi fossero causati da questa specie di “occhio cattivo” e invidioso (Eliade, 1949). Ci si ritrova davanti ad un sincretismo del mondonpagano e di quello cristiano che mescolandosi danno vita a pratiche multiformi.
Che cos’è dunque il malocchio se non il riconoscimento della donna in quanto madre generatrice all’interno della comunità in cui opera? I gesti che compirebbe nell’atto di “togliere il malocchio” sono talmente rassicuranti da insorgere nella persona un senso di affidamento e connessione molto
profonda. Come dichiarato anche da Clara Gallini (1971), la figura dell’anziana che toglie il malocchio è quella di una donna che protegge e rassicura.
Solitamente la praticante è una donna che opera con un intento preciso, quello di recare benessere grazie all’intervento di formule specifiche precedentemente apprese, i brebus, che rappresentano la parte più segreta del rito.
Essere una donna capace di togliere il malocchio equivale ad essere colei che opera per il bene della comunità, invocando ciò che di buono c’è, le energie benefiche, scacciando via quell’aura di malvagità racchiusa nell’invidia. Solitamente le manifestazioni del malocchio si esplicano con forti
emicranie e dolori alla testa, la capacità delle operatrici di guarire questi dolori le colloca in una posizione di prestigio. La medicina dell’occhio è un buon esempio, soprattutto se analizzato antropologicamente, per farci intendere quanto sia fondamentale l’aspetto comunitario delle pratiche e quanto queste si esplicano in un universo magico rituale, a volte impercettibile all’occhio umano. Siamo nella sfera dell’invisibile. Ad oggi la medicina dell’occhio è ancora praticata, il modo in cui sussiste, fa percepire quanto ormai questo fenomeno sia uscito fuori dalla località per entrare a far parte di un processo transnazionale.
Si deduce quindi quanto il fenomeno del malocchio, a differenza di altre pratiche, non sia scomparso bensì abbia mutato forma. Da un lato permane e si trasmette – come ancora alcune anziane fanno –, dall’altro sembra aver preso le sembianze di un sapere dislocato. Durante una delle tante chiacchierate con Roberta Cucciari mi è parso di comprendere quanto attualmente sia diventato complesso andare avanti nell’applicazione della pratica. Questa complessità è insita all’interno di un meccanismo che fa fede al concetto di reciprocità, su quel rapporto dare/avere. Se da un lato le operatrici erano mosse da un sentimento di bontà e di carità, dall’altro le energie messe in campo per l’attuazione erano talmente potenti che richiedono un compenso. Sembra che ad oggi questo compenso, questo dono reciproco sia venuto meno, lasciando posto più ad un sentimento di fascinazione del “sacro” che ad altro. Purtroppo, a causa di questa egoica interpretazione del rito, sempre più operatrici decidono di non voler più eseguire la medicina dell’occhio.